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Ruth: “La società in cui sono nata mi umilia continuamente”

Continua la rubrica che si impegna a raccogliere le storie dei cosiddetti “cittadini di serie B”, gli stranieri dimenticati dalle Istituzioni italiane. Oggi vi proponiamo il racconto di Ruth, una ragazza nata a Roma da genitori eritrei nel 1984. Ruth è riuscita a ottenere la cittadinanza italiana solo dopo aver affrontato un lungo calvario burocratico.

“Il rapporto tra te e lo Stato in cui nasci si basa da subito su una farsa, un ricatto. Come se lo stato ti dicesse: fingiamo che sei arrivato in Italia quando sei nato. Questo afferma il permesso di soggiorno che per diciotto anni devi rinnovare”, ha raccontato a La via libera. Lei, infatti, è riuscita a essere riconosciuta come cittadina italiana solamente dopo il compimento dei 18 anni. “Ricordo le file in questura per il rinnovo del permesso, un documento che diceva che ero immigrata. Ma sono i miei genitori che hanno vissuto l’esperienza migratoria, non io“, ha sottolineato. Tutto questo per Ruth non è stato solamente uno scoglio da superare, ma una vera e propria violenza: “Man mano che cresci, molti dettagli ti dicono che non sei come gli altri. Potresti ad esempio non poter andare in gita con i tuoi compagni di scuola perché il permesso di soggiorno è scaduto e ci vuole tempo per rinnovarlo”. La realtà è che per anni ha dovuto lottare contro uno Stato che non la riconosceva per quello che era: una cittadina italiana. Nata e cresciuta in Italia.

“L’acquisizione della cittadinanza non si riflette solo nell’avere il documento. – ha aggiunto per testimoniare le difficoltà che uno straniero affronta in questo percorso- Si tratta di poter dare voce al proprio pensiero, a sé. Cosa che in Italia non avviene, a partire dalla scuola”. E per confermare quanto detto, Ruth ha riportato un episodio che le capitò da piccola: “Alle elementari la maestra mi interpellava per chiedermi di parlare dell’Africa ai miei compagni, io che non la conoscevo per niente. L’impianto formativo in Italia è totalmente eurocentrico, tu sei solo un soggetto razzializzato. Questa società da una parte non fa i conti con il proprio passato, in primis coloniale, e dall’altra non sa ricreare la piazza plurale di cui in realtà è composto”. E questo crea un vero e proprio divario sociale, l’idea che gli stranieri siano “altro” da noi. O comunque sempre qualcosa di diverso.

“C’è una differenza tra sentirsi italiana, esserlo nel documento, e come la gente ti concepisce. In Italia se sei nera sei straniera. A me l’unica cosa che è cambiata con la cittadinanza è il diritto di voto, lo sentivo importante perché ai miei faceva soffrire non poter votare. Per il resto vengo sempre vista come una migrante, e come tale concepita a compartimenti stagni: in Italia se sei un migrante è strano che tu abbia degli interessi culturali, degli amici bianchi, che ti piaccia andare al cinema. Molte volte ho dovuto rispondere alle domande stupite di chi mi chiedeva ‘Ah, ma sei laureata?’. Questa cittadinanza mi pesa, perché la società in cui sono nata mi umilia continuamente“. E tutto ciò dimostra un’altra cosa: non sono solo le Istituzioni a considerare gli stranieri dei cittadini di “serie B”. Spesso sono anche gli italiani. Come se tra loro e “gli altri” ci fosse qualche differenza.

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