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Luca Neves, straniero in casa propria

Negli anni ’70 i suoi genitori sono arrivati in Italia. Antonio, suo padre, è un pescatore, così inizia la sua esperienza italiana lavorando nel porto di Nettuno. Lì rimane per qualche anno, finché non decide di spostarsi a Trigoria per intraprendere un nuovo impiego: diventa allevatore di cavalli in un maneggio poco distante dal campo dell’A.S Roma, la squadra giallo-rossa. E’ proprio alle porte della Capitale che incontra una donna, la stessa che poco dopo diverrà la madre dei suoi figli. Quattro, in totale, sono i bambini che nascono dal loro amore. Una vita tranquilla, un lavoro regolare e un permesso di soggiorno.

“I miei sono qui da 31 anni, hanno sempre pagato le tasse e lavorato regolarmente. I miei problemi sono iniziati quando sono diventato maggiorenne: in quel periodo mia madre si è ammalata gravemente e, qualche anno dopo, è morta. Io, insieme ai miei fratelli, facevo di tutto per assisterla e assicurarle le cure migliori. E’ stato un anno terribile”, racconta Luca facendo un tuffo nel passato. Così, per dovere, sceglie di fare domanda per ottenere la cittadinanza. Secondo quando previsto dalla legge 91/92, però, poteva richiederlo entro un anno dal compimento dei 18 anni, in quanto figlio di genitori regolarmente residenti e nato in Itala.

Di fatto, Luca inizia il suo iter poco dopo aver compiuto 19 anni. “Ero in ritardo di qualche mese, per mettere insieme tutti i documenti ci ho messo un po’. Ma la legge a riguardo è inflessibile”. E così, Luca entra in un vortice burocratico che sembra non avere fine. “A quel punto mi sono davvero sentito rifiutato e ho smesso di rinnovare il permesso di soggiorno. Che senso ha rinnovare il permesso di soggiorno nel paese in cui sei nato? Il mio estratto di nascita prova che sono nato all’ospedale Regina Elena di Roma, è un documento che porto sempre con me e che vale più di qualsiasi altra prova. Ho fatto l’asilo e tutte le scuole qui fino all’alberghiero. Ho sempre vissuto qui, a Capoverde sono stato una sola volta in vacanza coi miei quando ero piccolo. Cosa devo dimostrare per essere considerato italiano?”

La scelta di Luca, tuttavia, non può portare a nulla di buono. Il rischio è quello dell’espulsione, e lui c’è andato molto vicino. Nel 2012, infatti, gli arriva il primo foglio di via, che sceglie consapevolmente di ignorare. Preferisce continuare a occuparsi della famiglia, a lavorare il più possibile, anche se sempre in nero. Si arrangia come può. “Ho fatto il lavapiatti, il sous chef, il runner, il ruolo. Tutto per portare a casa qualche soldo”.

Passano gli anni, e arriviamo al 2019. Un’amica gli consiglia vivamente di regolarizzare la sua posizione, già critica da troppo tempo. Così Luca si convince, e decide di affrontare di nuovo la macchina burocratica italiana. Prende un appuntamento all’Ufficio immigrazione. “Spiego la mia storia, va tutto liscio, mi dicono che posso avere il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare. Mi prendono le impronte per darmi finalmente il documento, quando dal database esce fuori che ho avuto il foglio di via. Così mi portano in una cella di sicurezza e mi dicono di aspettare. Devono verificare l’anomalia“.

Il problema, però, è che non c’è nessuna anomalia. Quel foglio Luca lo aveva ricevuto, ma ha scelto di ignorarlo. Così, il rischio di essere rimpatriato si concretizza sempre di più. Lo capisce, e decide di nascondersi il cellulare in tasca per riprendere tutto quello che gli stava accadendo. Subito invia il video agli amici, lo posta sui social: “Con me c’erano persone che avevano commesso reati, ma cosa c’entravo io? Sono rimasto lì 10 ore. Poi grazie all’intervento del mio avvocato mi hanno rilasciato con un foglio in cui si dice che sono nato a Capoverde, non a Roma. Quindi ora sono davvero un immigrato”. O meglio: l’hanno fatto diventare un immigrato.

“Io spero che per noi italiani, figli di immigrati, la legge cambi davvero un giorno. Bisogna dare alle persone la possibilità di realizzarsi, di esprimere quello che hanno dentro. Non si può arrivare a 30 anni, come me, e dover ancora combattere con la burocrazia. Lavoro da 15 anni in cucina, suono e giro l’Italia con diverse band. Ma resto un artista senza identità”. Luca, infatti, è anche un cantante. Nella sua canzone, “La mia città”, racconta le sue esperienze, la sua vita. “Schiavo di uno Stato tanto complicato, can you fell me?”. E poi ancora: “A Roma sono nato, schiavo di uno stato, sempre contro me e altri mille. Salva un cittadino che ti danno il documento, ma poi a me non me lo danno, lo danno a te. Ma come mai? Questo accade mentre passa un altro anno”. Un altro anno senza cittadinanza, senza permesso di soggiorno. Senza identità

Continuano a emergere le storie di ragazzi che, a tutti gli effetti, si possono definire italiani. Ma che per lo Stato sono veri e propri fantasmi. Stiamo parlando dei cosiddetti “cittadini di serie B”. Questa volta raccontiamo di Luca Neves, un giovane chef nato a Roma da genitori capoverdiani. E’ qui da tutta la vita, ma secondo le Istituzioni non esiste. O meglio, nonostante tutto, è ancora un immigrato irregolare.

Negli anni ’70 i suoi genitori sono arrivati in Italia. Antonio, suo padre, è un pescatore, così inizia la sua esperienza italiana lavorando nel porto di Nettuno. Lì rimane per qualche anno, finché non decide di spostarsi a Trigoria per intraprendere un nuovo impiego: diventa allevatore di cavalli in un maneggio poco distante dal campo dell’A.S Roma, la squadra giallo-rossa. E’ proprio alle porte della Capitale che incontra una donna, la stessa che poco dopo diverrà la madre dei suoi figli. Quattro, in totale, sono i bambini che nascono dal loro amore. Una vita tranquilla, un lavoro regolare e un permesso di soggiorno.

“I miei sono qui da 31 anni, hanno sempre pagato le tasse e lavorato regolarmente. I miei problemi sono iniziati quando sono diventato maggiorenne: in quel periodo mia madre si è ammalata gravemente e, qualche anno dopo, è morta. Io, insieme ai miei fratelli, facevo di tutto per assisterla e assicurarle le cure migliori. E’ stato un anno terribile”, racconta Luca facendo un tuffo nel passato. Così, per dovere, sceglie di fare domanda per ottenere la cittadinanza. Secondo quando previsto dalla legge 91/92, però, poteva richiederlo entro un anno dal compimento dei 18 anni, in quanto figlio di genitori regolarmente residenti e nato in Itala.

Di fatto, Luca inizia il suo iter poco dopo aver compiuto 19 anni. “Ero in ritardo di qualche mese, per mettere insieme tutti i documenti ci ho messo un po’. Ma la legge a riguardo è inflessibile”. E così, Luca entra in un vortice burocratico che sembra non avere fine. “A quel punto mi sono davvero sentito rifiutato e ho smesso di rinnovare il permesso di soggiorno. Che senso ha rinnovare il permesso di soggiorno nel paese in cui sei nato? Il mio estratto di nascita prova che sono nato all’ospedale Regina Elena di Roma, è un documento che porto sempre con me e che vale più di qualsiasi altra prova. Ho fatto l’asilo e tutte le scuole qui fino all’alberghiero. Ho sempre vissuto qui, a Capoverde sono stato una sola volta in vacanza coi miei quando ero piccolo. Cosa devo dimostrare per essere considerato italiano?”

La scelta di Luca, tuttavia, non può portare a nulla di buono. Il rischio è quello dell’espulsione, e lui c’è andato molto vicino. Nel 2012, infatti, gli arriva il primo foglio di via, che sceglie consapevolmente di ignorare. Preferisce continuare a occuparsi della famiglia, a lavorare il più possibile, anche se sempre in nero. Si arrangia come può. “Ho fatto il lavapiatti, il sous chef, il runner, il ruolo. Tutto per portare a casa qualche soldo”.

Passano gli anni, e arriviamo al 2019. Un’amica gli consiglia vivamente di regolarizzare la sua posizione, già critica da troppo tempo. Così Luca si convince, e decide di affrontare di nuovo la macchina burocratica italiana. Prende un appuntamento all’Ufficio immigrazione. “Spiego la mia storia, va tutto liscio, mi dicono che posso avere il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare. Mi prendono le impronte per darmi finalmente il documento, quando dal database esce fuori che ho avuto il foglio di via. Così mi portano in una cella di sicurezza e mi dicono di aspettare. Devono verificare l’anomalia“.

Il problema, però, è che non c’è nessuna anomalia. Quel foglio Luca lo aveva ricevuto, ma ha scelto di ignorarlo. Così, il rischio di essere rimpatriato si concretizza sempre di più. Lo capisce, e decide di nascondersi il cellulare in tasca per riprendere tutto quello che gli stava accadendo. Subito invia il video agli amici, lo posta sui social: “Con me c’erano persone che avevano commesso reati, ma cosa c’entravo io? Sono rimasto lì 10 ore. Poi grazie all’intervento del mio avvocato mi hanno rilasciato con un foglio in cui si dice che sono nato a Capoverde, non a Roma. Quindi ora sono davvero un immigrato”. O meglio: l’hanno fatto diventare un immigrato.

“Io spero che per noi italiani, figli di immigrati, la legge cambi davvero un giorno. Bisogna dare alle persone la possibilità di realizzarsi, di esprimere quello che hanno dentro. Non si può arrivare a 30 anni, come me, e dover ancora combattere con la burocrazia. Lavoro da 15 anni in cucina, suono e giro l’Italia con diverse band. Ma resto un artista senza identità”. Luca, infatti, è anche un cantante. Nella sua canzone, “La mia città”, racconta le sue esperienze, la sua vita. “Schiavo di uno Stato tanto complicato, can you fell me?”. E poi ancora: “A Roma sono nato, schiavo di uno stato, sempre contro me e altri mille. Salva un cittadino che ti danno il documento, ma poi a me non me lo danno, lo danno a te. Ma come mai? Questo accade mentre passa un altro anno”. Un altro anno senza cittadinanza, senza permesso di soggiorno. Senza identità

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