Roma, 9 novembre 2021 – Quella di Adelina Sejdini è una storia che non può non essere raccontata. Adelina aveva 47 anni, ed era arrivata in Italia a 22. Proprio qui ha dimostrato la forza di denunciare i suoi sfruttatori, e grazie alle dichiarazioni rese alle forze dell’ordine ha permesso l’arresto di 40 persone e la denuncia di altre 80, tutte parte del racket albanese che controllava lo sfruttamento della prostituzione in Italia durante gli anni ’90. Adelina aveva un unico desiderio: riuscire a ottenere la cittadinanza italiana. Un desiderio che, tuttavia, il nostro Paese non le ha mai riconosciuto, portandola disperatamente al suicidio.
Adelina Sejdini e il sogno della cittadinanza che l’ha portata al suicidio
Nata a Durazzo, Adelina era riuscita a sfuggire al suo destino, un futuro nel mondo della prostituzione sotto il controllo del racket albanese. E ci era riuscita grazie al suo coraggio, un istinto che l’ha portata a denunciare i suoi sfruttatori, mettendo in piedi una delle operazioni più importanti degli anni ’90. Il prezzo da pagare era stato alto: ha dovuto lasciare Varese, la città dove era stata portata dopo essere stata venduta ai suoi protettori, e ha tentato di rifarsi una vita a Pavia. Come se la paura di riuscire a sopravvivere in delle circostanze tanto pericolose non fosse stata sufficiente, poco dopo il suo arrivo Adelina ha scoperto di avere un tumore al seno. A causa della malattia è stata costretta a continui ricoveri in ospedale: “I medici si prendono cura di me, sono in buone mani. Ma quando avrò bisogno di assistenza, come farò senza soldi né una casa…”, confessava alle amiche.
In quel momento, quindi, le lotte di Adelina si sono accavallate: da una parte combatteva contro il cancro, dall’altra tentava con tutte le sue forze di ottenere la cittadinanza italiana, il suo vero sogno. Aveva un permesso di soggiorno, ma le era stato tolto lo stato di apolide e indicata la cittadinanza albanese, cosa che ha portato a un rallentamento dell’iter per l’assegnazione di una casa popolare. Questo, nonostante vivesse a Pavia da quasi vent’anni, avesse lasciato il suo Paese nel 1996 e nonostante l’aiuto fornito alle forze dell’ordine. Dal suo letto d’ospedale aveva invocato l’aiuto di tutti, presidente della Repubblica compreso. Le avevano detto che “si sarebbero occupati del suo caso”, ma intanto i giorni, i mesi e gli anni passavano. E Adelina era sempre più malata, sempre più bisognosa.
A un certo punto non ha più trovato la forza di andare avanti. O meglio, ha trovato quella per compiere l’ultimo, disperato gesto di coraggio. Si è trasferita a Roma nella speranza di incontrare Mattarella, e per protestare contro la burocrazia che non le permetteva di ricevere la cittadinanza. Non riuscendoci, ha deciso di cospargersi d’alcool e darsi fuoco, nel tentativo di suicidarsi. Soccorsa e trasportata immediatamente all’ospedale Santo Spirito, è stata curata per le ferite riportate. Poco dopo sarebbe dovuta rientrare a Pavia, ma quel momento non è mai arrivato. Sabato scorso, a Roma, si è lanciata dal cavalcavia ferroviario di ponte Garibaldi. Lo Stato italiano aveva il compito di proteggerla, e invece le ha sempre voltato le spalle. E ora i suoi cari sono costretti a piangerla.
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